Francesco Scarabicchi
Jesi, 25 Aprile 2014
“Ricordatevi,
ragazzi futuri, vigilate il governo,/sparate sulle strade se la libertà è
assassinata/la guerra è morte e dolore, esplosione ed inferno/e quel che resta
è ombra, amara e mutilata.” I versi sono del poeta Franco Matacotta;
appartengono al suo libro del ’45 Fisarmonica rossa. “Per Matacotta - come scrisse il critico Carlo Antognini nel ’75 –
l’accezione del termine “Resistenza” è così pregnante e risolutiva da
estendersi, come una categoria dello spirito, contro qualunque forma limitativa
della libertà, venisse pure dall’interno medesimo del mondo in cui crede e per
cui lotta.”. Non distante dalla conterranea Joyce Lussu che annotava nel ‘92:
“E mi infastidiva quando in Italia venivo festeggiata come veterana della
campagna 1943-1945 o dovevo assistere a retoriche commemorazioni del 25 aprile,
come se si trattasse di un capitolo chiuso, come se l’aver fatto vent’anni
prima quello che ovviamente andava fatto costituisse una giustificazione
dell’intera resistenza, un titolo di merito permanente e definitivo. La
resistenza bisognava continuare a farla, senza far finta che il fascismo fosse
stato debellato e senza dimenticare che molti popoli spazi legali e
costituzionali non li avevano ancora, e dovevano ancora affrontare la guerra
per la loro sopravvivenza.”
La
fedeltà ad una data – il 25 aprile 1945 - è questa conferma della sua validità
nel presente che siamo, ferito dalla negazione del diritto e della legalità.
Averne coscienza storica e civile significa anche testimoniare la verità della
memoria che coniuga lo strazio lacerante di ieri con il dolore della
cronaca di oggi, ribadendo che nulla è acquisito per sempre, che nessuna
libertà è garantita e conquistata dal passo di una evoluzione che origina dai
disastri e di quei disastri fa coscienza e valore. La guerra nazifascista,
l’occupazione, le deportazioni, i campi di concentramento e di sterminio, la
liberazione città per città, paese per paese, strada per strada, sono gli
eventi che segnarono quel presente che purtroppo non ha impedito altri
strazi nei cimiteri del mondo, in quella mattatoriale geografia che ogni volta
ha ridisegnato il volto degli stati e dei continenti. Il terrorismo di
qualsiasi natura e specie è un altro volto del dominio e della disperazione che
l’Aprile illumina perché si rammenti e si sappia, contro l’indifferenza e
l’ignoranza, contro l’apatia e la rimozione, in uno stordimento che cancella
vittime e carnefici, come se ogni accadimento fosse la sua protesi virtuale e
non la barbarica realtà che non si spegne prima di coricarsi ma dura e prosegue
nonostante il sonno. La vocazione a non dimenticare cammina di pari passo con
l’esigenza di opporsi, di sapere, di capire, di distinguere. A sancire passato
e presente c’è il silenzio assoluto del monumento del Pincio, ad Ancona, dello
scultore Pericle Fazzini, la sua ferita e viva verità. Quel monumento
realizzato negli anni Sessanta non appartiene solo ad Ancona, ma al mondo e non
si lega esclusivamente agli eventi di quasi settant’anni fa, bensì svetta,
dall’alto della collina guardando il mare, a
rammentarci che ogni giorno di ogni anno dobbiamo resistere, proprio onorando l’origine del verbo che vuol dire
fronteggiare, reggere, durare, non cedere.
Nel
luglio del 1943, nell’insonnia delle
notti, Benedetto Croce appunta sul suo diario questa frase: “ma l’Italia
è un presente doloroso”. L’aggettivo inciso sulla pagina di quel luglio
rintocca, oggi, sebbene sia diverso, con la stessa afflizione per la nazione
umiliata,
tradita, impoverita non solo economicamente, ma nel suo profondo spirito
vitale, nella sua fiducia, nella sua vocazione ad essere uno Stato retto da una
Costituzione e da un Parlamento che dovrebbe non abdicare mai al proprio
rigore, alla propria intransigenza tutelata e protetta dal Diritto. Il
“presente doloroso dell’Italia” di oggi non deve essere una resa di fronte ad
una inadeguatezza della classe politica tutta intera nei confronti proprio
della Costituzione che non è un utensìle, ma il cuore pulsante che va difeso e
protetto come ogni cosa che indichi la direzione e la via. Resistere, quindi,
affinché la carta costituzionale non subisca sfregi e mutilazioni, ma resti l’atto
più alto che una Repubblica possa conquistare a caro prezzo, come il lavoro. Il
dolore del presente è anche la totale perdita di certezze, di punti di
riferimento e di approdi, lasciando a noi lo sbandamento e la vertigine. Dov’è
finita la memoria della Storia che consentiva ad ognuno di riconoscere il
proprio passato per comprendere e attraversare il presente, l’unico cantiere
dove si edifichi il futuro? Come renderci conto che quella che da tempo
definiamo “crisi” è, in realtà, la fine di un mondo, il disfacimento integrale,
la sua consumazione? Conosciamo gli effetti letali, la capacità di sconvolgere,
ma non vediamo bagliori nel buio. Qui dobbiamo nuovamente avere il coraggio
della ragione e resistere per
confermare il “si” alla vita contro la morte della coscienza e lo spegnersi del
sogno che è un atto concreto di verità, tra volontà e desiderio, tra impegno e
necessità.
Tutto
questo è già stato scritto da Antonio Gramsci, al termine di una lettera alla
moglie il 27 giugno 1932, dalla Casa Penale di Turi dove era rinchiuso. “Occorre
bruciare tutto il passato e ricostruire tutta una vita nuova: non bisogna
lasciarsi schiacciare dalla vita vissuta finora, o almeno bisogna conservare
solo ciò che fu costruttivo e anche bello. Bisogna uscire dal fosso e buttar
via il rospo dal cuore.”
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