Buona sera a tutti,
Ringrazio il Sindaco di Jesi, il Comitato per la difesa delle
Istituzioni Democratiche, i Partigiani e l’ANPI, le Associazioni
Combattentistiche e d’Arma, I Consiglieri Regionali, Provinciali e Comunali
presenti, le delegazioni delle forze dell’ordine, dei partiti, delle associazioni e i cittadini
tutti, che oggi mi danno la possibilità di essere qui, in veste di oratore
ufficiale di questa commemorazione a cui tengo in maniera particolare, perché è
da qui, da questi luoghi che ho iniziato a conoscere i Partigiani e la storia
della Seconda Guerra Mondiale che ha visto coinvolti tantissimi Jesini.
Un saluto e un ringraziamento particolare va ai familiari dei sette
Martiri.
Non è facile ricostruire con precisione assoluta come si sono
svolti i fatti che il pomeriggio di 71 anni fa, il 20 giugno 1944, esattamente
un mese prima della Liberazione di Jesi ha visto protagonisti circa 25 giovani
che da via Roma vennero rastrellati dai
nazi fascisti. Dalle testimonianze
scritte da Peppino Tittarelli e Amleto Lucarini,
due dei giovani scampati alla strage, possiamo
sapere che molti di questi ragazzi, tutti antifascisti si stavano preparando a
festeggiare l’imminente liberazione di Jesi. Quel pomeriggio in cui vennero
prelevati, molti di loro erano convinti che i tedeschi e i fascisti li
avrebbero portati a lavorare e poi rilasciati, come già altre volte era
accaduto ad altri giovani jesini.
La Guerra sembrava stesse per finire, il fronte stava avanzando
velocemente e sempre più spesso passavano tedeschi in ritirata. Quel pomeriggio
però a Jesi i fatti andarono diversamente: il IX battaglione Settembre, che era al
seguito della divisione tedesca Brandemburg , stava compiendo ripetute
operazioni di rappresaglia al fine di incutere terrore nella popolazione e
cercare di fiaccare la Resistenza.
I giovani di via Roma, purtroppo, si imbatterono nella ferocia
di queste truppe, che li fecero sfilare per via Roma, continuando a rastrellare
altri giovani lungo il percorso, fino ad arrivare alla casa colonica della
famiglia Massacci. Qui continuarono a minacciare i ragazzi con le armi, a picchiarli, e interrogarli per ore. I
repubblichini volevano sapere dove erano i partigiani e quali erano le loro
strategie. Li fecero sfilare davanti a
una porta il cui interno era nella completa oscurità, nella quale si celava una
misteriosa figura. Nel libro “La storia attorno casa”, Nello Verdolini ci rivela
che la misteriosa figura in realtà era una spia, una delatrice di Fabriano alle
dipendenze del fascio repubblichino di Jesi.
A Jesi si era costituito un ufficio politico fascista comandato
dal capitano Paggi e dal “seniore” Georgetti ed era un vero e proprio centro
per la ricerca e la conoscenza del movimento Partigiano nella zona degli Appennini
centrali. Da lì partivano elementi fascisti fatti venire da fuori, quindi
sconosciuti, per infiltrarsi nelle forze partigiane e riportare, quindi, con le
notizie sulla consistenza, sugli aiuti che ricevevano, sui contatti
giornalieri, anche quelle su ogni mossa, su ogni spostamento.
Nei giorni precedenti l’eccidio la donna si era presentata in
Via Roma come una profuga ed aveva chiesto ospitalità per qualche giorno. Aveva
frequentato i ragazzi del quartiere. Quel pomeriggio di 71 anni fa la donna selezionò
sette di quei giovani che vennero ancora torturati. Le grida, i pianti e le
urla di dolore vennero sentiti a grande distanza e si conclusero con una
scarica di mitra senza che i nazifascisti riuscissero a ottenere una qualche
informazione. I giovani uccisi erano Armando e Luigi Angeloni, fratelli,
rispettivamente di 25 e 18 anni, di professione muratori; Mario Saveri 23 anni,
meccanico. Alfredo Santinelli e Francesco Cecchi, diciottenni, apprendisti.
Enzo Carboni era un militare di 20
anni, originario di S. Eufemia d’Aspromonte, e Calogero Graceffo, carabiniere,
originario di Agrigento”.
Raccontare ancora oggi questo eccidio, a mio avviso, è
importante perché dobbiamo ai Martiri e alle loro famiglie infinito rispetto. Anche dal sangue di questi giovani sono nate la
nostra democrazia, la nostra Repubblica e la nostra Costituzione.
E’ importante raccontarlo soprattutto ai giovani con i quali,
del resto, negli ultimi anni abbiamo realizzato alcune belle iniziative, sia in
questo luogo, sia presso altri luoghi della memoria che ricordano altri giovani
caduti combattendo, o uccisi barbaramente dai nazifascisti. Lo abbiamo fatto
grazie all’impegno di alcuni insegnanti e alla collaborazione dei Dirigenti
scolastici delle scuole medie e superiori jesine e molti di voi ricorderanno le
“biciclettate” del 25 Aprile e la performance dei giovani studenti, “Sogno Ricorrente”,
svoltasi qui, davanti al monumento lo scorso anno.
E’ importante partire dalla scuola, perché è lì che si educa
alla cittadinanza e si forma la coscienza civile delle nuove generazioni
attraverso la conoscenza della storia del proprio Paese. La nostra storia,
oggi, parte da 7 ragazzi che, una sera di giugno, hanno visto troncata
brutalmente la loro vita. Erano partigiani, è vero, avevano scelto di stare
dalla parte giusta, forse avranno messo in conto anche di doverla dare, la
vita, combattendo per una causa giusta ma, appunto, combattendo, non dopo
essere stati legati e seviziati.
La storia continua con il sacrificio di Francesco Contuzzi, caduto
sulla strada per Santa Maria Nuova, o di quello di Eraclio Cappannini,
catturato e fucilato sotto le mura di Arcevia, dei partigiani Panti e Magnani
fucilati all’angolo di via XX Settembre o di Libero Leonardi (medaglia d’oro al
valore militare ), fucilato a Moie di Maiolati.
Potrebbe ancora continuare ricordando l’apporto dato alla guerra
di liberazione dai gappisti che operavano in città e da una parte, almeno,
della popolazione, che dava rifugio ai partigiani e li riforniva, per quanto i
tempi lo consentissero di generi alimentari e di vestiario.
In prima fila c’erano le donne, madri, mogli, sorelle di quelli
che erano in montagna, quelle donne che l’8 marzo del 1944 andarono, a piedi,
sulla strada che conduce alla “Torre”, con i tedeschi ovunque a portare i fiori
sul luogo dove era caduto Francesco Contuzzi.
Le donne hanno dato un grande apporto alla resistenza.
Appartenevano a tutti i ceti sociali, erano operaie, contadine, studentesse,
casalinghe e si impegnavano in cose femminili, come cucire, rammendare,
cucinare, curare i feriti e assisterli, ma hanno fatto anche altre cose nuove,
come combattere o fare le staffette, con il compito di portare la stampa
clandestina, tenere i rapporti tra le formazioni partigiane, raccoglie
informazioni ecc ecc.
In questo ruolo hanno dato il loro contributo le sorelle Alba e
Aurora Matteucci, impegnate l’una nella zona di Arcevia, l’altra in quella di Aspio-Osimo,
entrambe nella Brigata Garibaldi e ancora Mosconi Nicolina, invalida poi di
guerra, Luigia Andreoli, Ada Belardinelli, Clelia Castelli, Silvia Cecconi,
Maria Della Fazia, le sorelle Concetta e Lilia Magini e tante altre ancora.
Spesso ci chiediamo: perché bisogna essere, ancora
oggi, antifascisti? Perché, a distanza di 71 anni da quei fatti dolorosi,
bisogna ancora ricordare la Resistenza?
Tutti gli oratori che mi hanno preceduto negli anni
scorsi hanno affrontato questi quesiti, trovando, ognuno, un senso alla nostra
presenza qui, oggi. Le risposte sono state
diverse, legate a motivazioni storiche, sociali, emozionali.
La Resistenza
ci ha insegnato la solidarietà, a non dover odiare per forza, a cercare di
poter vivere tutti rispettando le regole della Democrazia che lasciano spazio a
tutti, anche a chi combatteva contro di essa.
Diceva Piero Calamadrei: “ avere riscoperto la dignità
dell’uomo e la universale indivisibilità di essa: questa scoperta della
indivisibilità della libertà e della pace per cui la lotta di un popolo per la
sua Liberazione e insieme lotta per la liberazione di tutti i popoli dalla
schiavitù del denaro e del terrore, questo sentimento della uguaglianza morale
di ogni creatura umana qualunque sia la sua Nazione o la sua religione o il
colore della sua pelle, questo è l’apporto più prezioso e più fecondo di cui ci
ha arricchito la Resistenza.
Non è stato affatto facile arrivare a sconfiggere il
nazifascismo. Quegli anni sono stati caratterizzati dalla brutalità, dalla
guerra, dalla fame e dalla povertà. Eppure, nonostante le infinite difficoltà,
esistevano una solidarietà e un’umanità, che purtroppo, oggi, giorno dopo
giorno, andiamo sempre più perdendo o dimenticando.
Ma c’è la nostra Costituzione a ricordarci quei
“doveri inderogabili di solidarietà sociale” che sono scritti a caratteri
indelebili nell’art. 2.
Ma non sempre la Costituzione è rispettata. Basta
guardarci intorno, dare un’occhiata al caos scolastico o alla speculazione
edilizia, alla situazione delle carceri, a quella degli operai nelle aziende,
alle difficoltà delle famiglie meno abbienti, alla mancanza degli asili nido
specie al sud, all’emarginazione femminile per avere più di una conferma alle
conseguenze della mancata applicazione di alcuni dettami Costituzionali.
Del resto, che non ci fosse la volontà, da parte dei
partiti e dei governi che presero nelle mani il potere, di rispettare la carta
costituzionale da poco approvata, apparve chiaro già dalle parole del ministro
dell’Interno Mario Scelba, divenuto poi Presidente del Consiglio, il quale
definì la Costituzione “una trappola”, in cui lui e il suo partito non
sarebbero mai caduti. Evidentemente, non ci si poteva attendere che coloro che
temevano di rimanere intrappolati dalla Costituzione, se ne facessero poi
zelanti esecutori.
Basterebbe prendere l’articolo 3 che dice: “Tutti i
cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza
distinzione di sesso, di razza, di religione, di lingua, di opinioni politiche,
di condizioni personali e sociali. E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli
di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e
l’uguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e
l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e
sociale del Paese”.
Dei passi in avanti in questo senso ne sono stati
fatti, ma tutto ciò che è stato ottenuto, non è stato perché la Repubblica,
cioè i governi e parlamenti abbiano operato in questo senso, ma perché le masse
popolari, facendosi forti dell’investitura democratica della Costituzione, hanno
lottato, lasciando lungo la strada tante vittime che dovevano e potevano invece
essere risparmiate se la Costituzione fosse stata compiutamente applicata.
Purtroppo il fascismo e il nazismo sono ancora ben
presenti in Italia e in Europa. La recente svastica apparsa nel campo da calcio della
Croazia ne è un esempio, ma, come diceva il Presidente Nazionale dell’ANPI
Smuraglia anche l’indifferenza e il silenzio di tanti (troppi!) e la
brutalità di certi discorsi di politici che “grattano la pancia” ai peggiori
istinti e perfino a quelle reazioni che pure possono essere “normali” in
periodo di crisi, ma che non andrebbero strumentalizzate; … l’assenza di
umanità nelle loro parole, che non sono
superficiali come potrebbero sembrare, ma sono molto peggio, perché si nutrono
di egoismi e di bassezze.
La questione dei migranti ne è l’esempio più evidente.
I profughi e gli emigranti sono sempre esistiti nella storia dell’umanità, ma
quanto sta accadendo in questi ultimi anni è un fenomeno assolutamente nuovo,
per quantità e qualità, ma è certo che quanti oggi abbandonano il proprio
Paese, lo fanno spinti dall’idea che sia l’unica possibilità per sopravvivere.
La disperazione, la fame, la speranza di vivere meglio non conoscono frontiere
e non rispettano i confini degli stati ed ecco i barconi che attraversano lo
stretto di Sicilia carichi di disperati che si sono messi nelle mani di gente
senza scrupoli, che ha trovato negli espatri clandestini una nuova e ricca
fonte di guadagno. E questa è la conseguenza della politica coloniale prima, e
neocoloniale oggi dei Paesi europei che considerano l’Africa soltanto come un
serbatoio inesauribile di materie prime, i cui prezzi vengono fissati a Londra
o a New York.
Per quanto riguarda gli stati creati dal Colonialismo
in Africa e nel vicino oriente, i confini rigidi imposti dai paesi Europei
erano tracciati per linee verticali, perché le loro esplorazioni avevano
seguito quasi sempre il corso dei fiumi lungo una direttrice nord-sud, mentre
la distribuzione dei gruppi umani seguiva un andamento diverso. Risultato: un
disastro. Si sono uniti i nemici e separati i parenti e questo ha causato e
causa ancora conflitti sanguinosi e interminabili, come in Nigeria o in Sudan.
La situazione Africana è oggi una delle più critiche nel mondo. Le società
Africane, soprattutto quelle degli Stati sub-shaariani e dell’Africa centrate e
occidentale sono intrappolate in realtà dove sottosviluppo, violenza, fame,
povertà, malattie, analfabetismo e catastrofi naturali si alimentano a vicenda.
I nuovi stati sono stati creati dall’esterno: sono creature artificiali in cui
popolazioni ed etnie diverse, con stili di vita e interessi spesso
contrapposti, si sono trovate a dover condividere spazi comuni che forse,
lasciate libere di scegliere, non avrebbero condiviso. La fine della guerra
fredda e il conseguente disgelo nelle relazioni internazionali hanno posto fine
all’Africa nata dal colonialismo, ma non alla violenza collettiva e organizzata
che quel sistema ha prodotto, i cui guasti e tragedie sono oggi parte della
crisi del mondo ex coloniale. Si tratta di intere popolazioni sottoposte a
dilaganti processi in cui intervengono sia mancanza di risorse e crisi
produttive e di sviluppo, sia crisi di valori, di identità collettive e di
istituti democratici che stentano a decollare, con il conseguente diffondersi a
macchia d’olio di guerre e guerriglie, rivendicazioni nazionaliste, di guerre
civili sanguinose. E le guerre civili si distinguono per due elementi di fondo:
il livello di spietatezza e di ferocia e la reciproca negazione di legittimità
da parte di ciascuno dei contendenti che consente ogni forma di eccesso contro
la parte avversaria. Da tutto questo fuggono oggi, le migliaia di persone che
approdano sulle coste italiane e che molti non vogliono, compresi alcuni che
ricoprono importanti cariche istituzionali. Alcuni di questi politici hanno
addirittura minacciato che se si adotteranno misure assistenziali nei confronti
di questi diseredati occuperanno le prefetture.
Io spero che non si vada
avanti per questa strada; se così fosse dovremmo ribellarci tutti in nome di
una Costituzione che parla di solidarietà, uguaglianza e di dignità e che si metta in atto una vera rivolta morale,
non solo dei tanti che si sacrificano facendo volontariato per garantire almeno
un minimo a questi “stranieri”, ma anche dei moltissimi che finora hanno
praticato la poco nobile arte dell’indifferenza e della rassegnazione.
E l’ANPI, Nazionale e Locale
è, come deve essere, in prima fila a guidare questa rivolta morale risvegliando
le coscienze della gente e rivolgendosi soprattutto ai giovani, che saranno i
cittadini di domani per cominciare a costruire insieme una società più giusta e
democratica, fondata sulla pace, la
solidarietà, e sul reciproco rispetto, piuttosto che sull’odio e sulla
divisione. E’ la società che sognavano i Partigiani che qui ricordiamo e
onoriamo oggi insieme agli altri caduti jesini.
Luciano Taglianini, il Partigiano che mi ha fatto conoscere tante
cose, ripeteva sempre che questi luoghi e quei morti andavano onorati perché “perché i morti ce li avevamo messi noi”.
Al di fuori da ogni retorica, la dimostrazione che non sono
morti inutilmente è la nostra presenza qui, davanti a questo cippo, che ricorda
7 giovani vite stroncate, 7 come quelle dei Fratelli Cervi, anche essi vittime
della barbarie nazifascista.
Scriveva papà Cervi nel libro dedicato ai figli ricordando
l’eccidio:
“le nuore mi si
avvicinarono e io piansi i figli miei. Poi, dopo il pianto dissi: dopo un
raccolto ne viene un altro. Andiamo avanti”.
Noi, qui, sta sera, siamo il nuovo raccolto.
20 giugno 2015
Daniele Fancello
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